Da anni quasi tutti gli opinionisti e i commentatori incolpano dei ritardi nella trasformazione digitale del Paese la resistenza culturale della pubblica amministrazione italiana. Sostengono che norme e piattaforme esistono già e che a bloccare le magnifiche sorti e progressive che l’innovazione tecnologica promette sia solo l’atteggiamento antagonista di chi nella PA si ostina a rifiutare o a non assecondare i progetti necessari al cambiamento.
Quanti lavorano in ambito pubblico sanno invece fin troppo bene che la resistenza all’innovazione digitale è ormai un lontano ricordo, superata ben prima dell’arrivo della recente pandemia che ha comunque cancellato qualunque vincolo alla digitalizzazione e spinto gli enti a intraprendere processi di informatizzazione massiva, talvolta anche incauti e spesso assai disinvolti.
Sono ben altre – almeno tre, in realtà tutte riconducibili a una – le ragioni concrete che hanno condotto la maggior parte degli enti a segnare il passo nel percorso di trasformazione e a lasciarle impreparate a fronteggiare la dimensione digitale imposta dal lockdown.
In primo luogo, non ha affatto aiutato la presenza di un impianto normativo pur precoce e dettagliato, ma sin da primi passi oggetto di continui aggiornamenti anche a livello di norma primaria (il Codice dell’amministrazione digitale ha subito modifiche sostanziali almeno una volta l’anno da quando è stato approvato nel 2005). La normativa tecnica, complessa e articolata, non è stata mai accompagnata da quelle indicazioni operative e di supporto di univoca interpretazione, che l’instabilità delle disposizioni avrebbe invece richiesto.
In secondo luogo, hanno rallentato il processo i sistemi di gestione documentale contemporanei (analogici, digitali e ancor più ibridi) che presentano tutti un elevato e intrinseco grado di complessità dovuto alla grande quantità di dati e documenti prodotti e gestiti, alla frammentarietà dei processi di lavoro e di trattamento e distribuzione delle informazioni che ne derivano, alla presenza crescente di sistemi verticali privi di regole di condivisione, all’assenza di direttive interne che avrebbero potuto e dovuto armonizzare le attività di formazione e gestione degli archivi.
In terzo luogo, rimane ancora oggi deluso chi ha sperato e spera di trovare nel mercato – senza un paziente e scrupoloso lavoro di cernita e continuo adattamento – soluzioni miracolose capaci di sostenere sul piano organizzativo e tecnico la trasformazione digitale e sfruttare con efficacia le potenzialità che ne derivano. Scegliere piattaforme e infrastrutture adeguate alle proprie esigenze implica inoltre la conoscenza approfondita dei contesti specifici cui sono destinate e la corretta valutazione richiede conoscenze di merito e di metodo che oggi mancano alla gran parte delle pubbliche amministrazioni, qualunque sia la loro dimensione.
Per tutte le criticità osservate, quindi, all’origine del divario tra la tecnologia disponibile e la capacità di individuarla e ancor più applicarla, c’è un gap tanto significativo quanto trascurato dovuto proprio all’assenza di competenze interne adeguate, in particolare:
- di professionisti interni competenti in grado di interpretare correttamente le regole della complessa produzione documentale informatica e di applicarle con sicurezza all’interno dell’ente;
- di professionisti interni competenti in grado di sciogliere i nodi della ridondanza e della inutile proliferazione di documenti e archivi e di armonizzare i processi di produzione e di organizzazione interna del sistema informativo documentale;
- di professionisti interni competenti in grado di individuare le tecnologie adatte ai bisogni di gestione, tenuta e fruizione delle fonti documentarie e di verificare con strumenti di autovalutazione la congruità degli applicativi esistenti, definendo i requisiti funzionali obbligatori e rilevanti necessari all’aggiornamento dei sistemi o all’acquisizione di nuove soluzioni e sostenere con griglie operative sufficientemente granulari le scelte per il futuro.
In sostanza, il problema dei ritardi e, ancor più, le criticità di una digitalizzazione improvvisata – che non potranno essere ignorate quando si riprenderanno le attività sospese o rallentate nel corso di quest’ultimo anno – hanno una prima (anche se certamente non unica) origine: la mancanza prolungata di responsabilità e di competenze tecniche specialistiche nel settore documentale informatico. Si tratta di un obbligo previsto già nel 2000, che le Linee guida Agid sulla formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici, uscite pochi mesi fa, hanno nuovamente e con decisione riaffermato senza margini di incertezza e di ambiguità, stabilendo che ogni ente deve affidare il proprio archivio digitale a un responsabile della gestione documentale provvisto di competenze archivistiche, giuridiche e informatiche.
In un Paese normale, non dovrebbe essere necessario ribadire periodicamente che per svolgere un mestiere tecnico servono conoscenze tecniche, né che “una pubblica amministrazione, che per un lungo periodo non fa, finisce per non saper fare. E chi non sa fare, non sa far fare agli altri” (da un’intervista all’allora ministro dell’economia e delle finanze Giovanni Tria a “Il Sole 24 ore” del 7 novembre 2018). È pur vero, per concludere con una felice frase di Mark Twain, particolarmente calzante se riferita a una trasformazione digitale che ancora non dà frutti e a cattive abitudini che invece continuano a essere coltivate, che nessuno può liberarsi di un’abitudine “gettandola dalla finestra, ma se mai convincendola a scendere le scale un gradino per volta”. Chi altri, se non l’archivista digitale preparato ad affrontare il futuro grazie a una formazione consolidata e matura, alla conoscenza approfondita del passato e fornito degli strumenti necessari ad affrontare l’innovazione futura, potrà essere sufficientemente persuasivo, ma soprattutto efficace, in questo impegnativo passaggio?
(Fonte ForumPA)